Antoni Muntadas, in modalità rianimazione

In un'epoca in cui lo spazio pubblico è assorbito da logiche di mercato, sorveglianza e frammentazione, Antoni Muntadas emerge con una proposta che non è una mostra in senso tradizionale, ma piuttosto un'occupazione critica. Public Place , al SESC Pompeia di San Paolo, non è contemplato: è attraversato, abitato e discusso.
L'artista catalana si ispira all'architettura radicale e brutalista di Lina Bo Bardi non per adornarla, ma per interagire con essa. La mostra, nelle parole di Muntadas, non è un percorso chiuso, ma piuttosto "una deriva, un viaggio con elementi che invitano all'incontro". E infatti: colonne totemiche, panchine-punto interrogativo e le frasi luminose "Dove siamo?" o "Andiamo avanti" sospendono il visitatore in uno stato di consapevolezza urbana e politica.
Il SESC Pompeia, a San Paolo, Brasile.
Il curatore Diego Matos la descrive come una "occupazione totale dell'Area Comune" del centro culturale. Ma più che occupare, Muntadas la rivitalizza: riporta alla luce il concetto di pubblico come spazio di negoziazione, non di consumo ; come domanda, non come certezza. "È un a priori dell'artista: creare un ambiente di lavoro in cui dialogo e negoziazione non siano solo necessari, ma la forza trainante del programma espositivo", scrive Matos.
In contrasto con la logica museografica del cubo bianco, Public Place opera in chiave situazionista . Rivendica la cittadella della libertà immaginata da Lina Bo Bardi e che Muntadas salva dall'urgenza. Il visitatore è complice involontario di un progetto che pone, a livello visivo e spaziale, interrogativi che risuonano oltre i confini del reale: cos'è il pubblico oggi? Chi lo abita? Chi lo definisce?
Il visitatore è complice involontario dell'expo Antoni Muntadas.
Qui non ci sono opere autonome, ma piuttosto dispositivi – visivi, testuali, spaziali – che spostano l'attenzione dall'aspetto artistico a quello civico. La frase "Life is editing" su un tappetino di gomma riassume il gesto di Muntadas: l'arte come atto di editing collettivo , in cui ogni passo del visitatore taglia, incolla o riscrive lo spazio condiviso.
L'intero intervento è immerso in una luce blu tenue, quasi liquida, che unifica gli spazi e crea un'atmosfera di sospensione e allerta. Può essere letto come una metafora precisa: una zona di transito tra stati , come un'interfaccia tecnologica in attesa o una schermata blu prima di un riavvio. Questo colore non segnala una conclusione, ma piuttosto una soglia: una pausa che apre la possibilità di una riconfigurazione. Si riferisce al digitale, sì, ma anche al gesto politico di fermarsi a pensare e decidere se avanzare o indietreggiare, o di mettere in discussione il significato stesso del continuare.
*Cristian Segura è un artista interdisciplinare e manager culturale. Ha diretto il Museo di Belle Arti di Tandil.
Clarin